Il rosso che vedo io e il rosso che vedi tu

kitaoka_redspiralsIl rosso che vedi tu è uguale al rosso che vedo io? Direi di trascurare i risvolti filosofici della questione e di rispondere alla domanda come se fosse perfettamente appropriata. Mettiamo insomma che tu, mantenendo la tua identità, possa trasferirti nel mio corpo (Invasion of the Vision Snatchers*) e vedere il mondo attraverso il mio sistema visivo. Guardi un pomodoro maturo, poi, zip!, traslochi nella mia testa e lo guardi ancora: il suo colore è cambiato?

I colori che vediamo dipendono dall’attività di tre tipi di coni, soprannominati familiarmente coni rossi, verdi e blu perché rispondono di preferenza alle lunghezze d’onda lunghe (“rosse”), medie (“verdi”) e corte (“blu”) della luce. La luce riflessa dal pomodoro attiva soprattutto i coni rossi, un po’ meno i coni verdi e per niente i coni blu. Insomma, il colore che vediamo contemplando il pomodoro è dato da uno preciso rapporto, calcolato in alcune aree del cervello, tra le attività dei nostri coni rossi e verdi. Se coni rossi e verdi sono egualmente attivi, vediamo giallo; man mano che i coni rossi diventano più attivi di quelli verdi, il giallo diventa arancio e poi rosso. Potrebbero i nostri sistemi visivi essere così diversi da generare pomodori di colori diversi?

In alcuni casi, ça va sans dire. Per esempio, se sono un maschio ho una probabilità su dodici di essere daltonico. Il cervello di un daltonico non è capace di confrontare fra loro i livelli di attività dei coni rossi e verdi; è come se questi due livelli fossero sempre identici, per cui il risultato non può essere altro che giallo. Spòstati nella mia testa e il pomodoro ti apparirà giallognolo (anche se io ho imparato a chiamarlo “rosso”). Se invece sono una femmina potrei, tanto per dire, avere quattro coni diversi anziché tre; con la mia super-visione tetracromatica distinguerei sfumature di rosso che a te sembrano uguali. Spòstati nella mia testa e il pomodoro ti apparirà di un rosso diverso da prima.
Troppo facile puntare sulle eccezioni, dirai tu: ma se abbiamo tutti e due una visione a colori “normale”?
Beh, le prime fotografie di rètine umane con una risoluzione decente si è riusciti a ottenerle solo tre anni fa, e a sorpresa queste hanno rivelato che il rapporto fra coni rossi e verdi varia in modo impressionante fra un individuo e l’altro, addirittura fino a 40 volte. Alcuni di noi hanno lo stesso numero di coni rossi e verdi, in altri i coni rossi sono il doppio o il quadruplo di quelli verdi e così via. Se io ho un rapporto fra coni molto diverso dal tuo, quando traslochi nella mia testa il pomodoro ti apparirà di un rosso diverso da prima. La cosa stupefacente è che non è così diverso come ci si aspetterebbe: se fra tanti campioncini di giallo devono scegliere il giallo puro, quello che non tende né al rosso né al verde, persone con rapporti diversissimi fra coni indicano gialli molto simili. Questo vuol dire che nei cervelli esiste un meccanismo che calibra i colori allo stesso modo, compensando le differenze tra retine.
Un altro segno dell’esistenza di questo meccanismo di calibrazione è che il giallo visto come puro si sposta verso il rosso se si passa qualche ora al giorno in una stanza illuminata da luce rossa; cessata definitivamente la frequentazione della stanza rossa, ci vuole una settimana prima che il giallo torni quello di prima. Ne deduco che, se io e te avessimo sistemi visivi identici ma tu ti trasferissi nella mia testa al mio ritorno da una spedizione nel (giallo) Sahara o nella (bianca) Groenlandia, il pomodoro ti apparirebbe di un rosso diverso; ogni differenza, però, svanirebbe dopo qualche giorno che alloggi nella mia testa. Se condividiamo il mondo e le luci che lo illuminano, condividiamo anche il rosso dei pomodori.

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DOVE NEL LIBRO: capitolo 2, Il sistema visivo, e capitolo 3, Come vediamo i colori. La morale è che la visione a colori è guidata dalla nostra esperienza del mondo, mediante un meccanismo plastico che calibra i colori che vediamo sulla base di quelli dell’ambiente in cui ci troviamo a vivere—che dipendono fondamentalmente dall’illuminazione. Ho scritto la versione originale di questo pezzo, in risposta alla domanda di un lettore, per la rivista Coelum Astronomia (rubrica Fatti & Opinioni, aprile 2009).

ILLUSTRAZIONE: Qualche volta il rosso che vedo io è diverso dal rosso che vedo io. Questa immagine contiene un’unica tonalità di rosso, anche se i segmenti rossi appaiono arancioni all’interno delle spire gialle, e magenta all’interno delle spire blu (Akiyoshi Kitaoka, 2002).

RIFERIMENTI: Invasion of the Vision Snatchers è un omaggio a Invasion of the Body Snatchers (L’Invasione degli Ultracorpi): un celebre film, tratto da un racconto di fantascienza di Jack Finney, nel quale le persone vengono rimpiazzate da copie aliene perfettamente identiche ma prive di emozioni. Nella sindrome di Capgras (e questa non è fantascienza), una dissociazione fra emozioni e riconoscimento dei volti fa sì che gli individui affetti credano che parenti e amici siano stati sostituiti da impostori a loro identici.

Il mio occhio spiegato al calamaro (parte II)

interior camouflage, Desiree Palmen 2004

Interior camouflage, Desiree Palmen 2004

Come si diceva, la retina del nostro occhio è capovolta: un pasticcio, perché per poter uscire dall’occhio il nervo ottico deve bucare il tetto anziché il pavimento. Il risultato è un foro nello strato più prezioso, quello dei fotorecettori. Insomma, uno degli uffici al piano terra è vuoto, non ha nemmeno una singola cellula scrivana. Questa zona è detta macchia cieca: data l’assenza di fotorecettori, la luce che la colpisce non viene percepita affatto. Ma allora quando guardiamo in giro dovremmo vedere un buco! Un buco piccolo piccolo forse? Altro che piccolo: la macchia cieca è grande a sufficienza da far svanire un mandarino tenuto alla distanza del braccio teso.

In questa beata ignoranza veniamo mantenuti da due circostanze: la prima è che il nostro occhio si muove in continuazione, per cui il buco si sposta rapidissimamente di qua e di là, la seconda è che di occhi ne abbiamo due, e la regione del campo visivo invisibile a un occhio è visibile all’altro. Per sperimentare la macchia cieca dobbiamo non solo tapparci un occhio e tenere lo sguardo ben fermo, ma anche ricorrere a un trucchetto (a pagina 35 del libro, oppure qui, o anche qui). In queste dimostrazioni si fissa qualcosa, ad esempio una croce, tenendo aperto un solo occhio, e qualcos’altro, ad esempio un mandarino, sparisce. Il mandarino però non viene rimpiazzato da un “nulla” o da un “vuoto”: semplicemente, le caratteristiche della zona circostante si espandono all’area in cui il mandarino si trovava. Se il mandarino stava su una tovaglia bianca, l’area ex-mandarino si riempie di bianco; se stava su una tovaglia a righe, si riempie di righe. Si pensa che questa rappresentazione “fantasma” sia creata dalle cellule della corteccia visiva che si trovano vicino a quelle rimaste temporaneamente senza stimolazione. L’attivazione limitrofa si estenderebbe alla zona silente, un processo analogo a quello che si verifica nella sindrome dell’“arto fantasma”, in cui persone che hanno perso un braccio o una gamba continuano a percepirne la presenza.

Avete capito, insomma, che la fortuna di poter vedere una scena senza buchi e la disgrazia di sentire prurito o dolore a una gamba amputata si somigliano. Certo sarebbe stato meglio ritrovarsi direttamente col modello di occhio corretto, quello del calamaro, in cui vasi sanguigni e fibre nervose provengono da dietro la retina invece che da davanti. In questo modello, la retina è saldamente ancorata al fondo dell’occhio mediante le fibre nervose. Nel nostro, invece, il tappeto dei fotorecettori si può staccare con relativa facilità dal fondo dell’occhio, dando origine a un malanno serio che si chiama distacco di retina.
Ah, già. Avevo promesso di svelarvi come si fa a far passare i crampi a una mano che non c’è più. Sarebbe stato considerato impossibile fino a poco tempo fa, quando si credeva che la sindrome dell’arto fantasma fosse causata da un’irritazione delle terminazioni nervose recise durante l’amputazione. La recente comprensione del meccanismo reale ha permesso di trovare una soluzione semplice e geniale: lo si fa con gli specchi. (È incredibile il numero di problemi che possono essere risolti con gli specchi.) Il paziente infila l’arto sano (ad esempio, il braccio destro) in una delle due camere di una scatola speciale, divisa a metà da un doppio specchio, e l’arto amputato dall’altra parte. Nello specchio della camera di destra, il paziente vede la mano destra sana riflessa nella posizione in cui si troverebbe la mano sinistra mancante. A questo punto muove la mano destra, proprio come farebbe per rilassarla, e guardandone l’immagine riflessa ha la sensazione di muovere e rilassare anche la mano sinistra. Di solito questo esercizio arreca un sollievo immediato; in alcuni casi, un sollievo permanente.
Lasciarsi ingannare da quel che vediamo non è mica sempre una fregatura.

DOVE NEL LIBRO: capitolo 2, Il sistema visivo; scommetto che riuscite a far sparire il dischetto nero della Figura 2.9.

ILLUSTRAZIONE: L’illustrazione mostra un caso in cui, invece di vedere quello che non c’è—come facciamo quando completiamo la parte della scena che cade sulla nostra macchia cieca—non vediamo quello che c’è. O voi la vedete, la persona seduta di spalle, china in avanti e appoggiata al tavolo? A proposito, bella maglietta! (Desiree Palmen, 2004. Trovate qui altre opere di body camouflage della stessa artista. Le persone fotografate indossano abiti, in questo caso dipinti a mano, che riproducono la parte retrostante della scena. Il mantello che rende invisibili potrebbe essere basato sullo stesso principio; ecco un prototipo rudimentale, ma questo è solo l’inizio.)

Il mio occhio spiegato al calamaro

Quando un braccio o una gamba vengono amputati, succede che i pazienti continuino a sentirne la presenza. Non una gran compagnia, perché in alcuni malcapitati l’arto fantasma ha i crampi. I crampi a un braccio vero vanno e vengono, ma quelli a un braccio che non esiste non passano mai; di rimediare con un massaggio non se ne parla.
Ci tocca consolarci in un altro modo: se non esistessero braccia e gambe fantasma, il mondo che vediamo attorno a noi avrebbe un buco, e mica un buco da poco.

Il mio occhio è una sfera con un utile tappetino all’interno, sul fondo. Questo tappetino (la rètina) è una specie di sistema postale, con cellule “scrivane” (i fotorecettori) che rispondono alla luce e la convertono in segnali elettrici; cellule “intermediarie” che ricevono i segnali dalle cellule scrivane e li passano alle cellule postine; e cellule “postine” che li recapitano al cervello. Immaginate che il tappetino sia un condominio a tre piani: al piano più alto le scrivane, al piano sotto le intermediarie, e al piano terra le postine. Da qui al cervello c’è un po’ di strada, ma le postine non hanno bisogno di spostarsi: hanno codine lunghe e sottili, che ricoprono il pavimento e per praticità si raggruppano tutte in un fascio, il nervo ottico. Il nervo ottico deve bucare l’occhio per uscire, e che sarà mai se c’è un buco sul pavimento: tanto siamo al piano terra, giusto? Ah! qui entra in scena il calamaro, con tanto di fanfara.
Nell’occhio del calamaro, il buco sta intelligentemente sul pavimento; ma nel nostro (e in quello degli altri vertebrati), il buco sta sul tetto. Il tappetino è capovolto: la luce in arrivo deve attraversare prima il pavimento ricoperto di cavi, poi le cellule postine, poi le cellule intermediarie, poi le cellule scrivane; solo a questo punto viene captata e trasformata in segnali elettrici. Gran parte della luce arriva a destinazione comunque, perché la retina è sottile e le cellule praticamente trasparenti; però non venitemi a dire che siamo nel migliore dei mondi possibili. Tanto è vero che l’evoluzione ci ha messo una toppa: nel punto centrale della retina, dove mettiamo a fuoco quello che vogliamo vedere chiaramente, c’è una sorta di precipizio, una stanzucola al piano terra. Qui le cellule scrivane non hanno nessuno sulla testa: le cellule postine e intermediarie sono ammucchiate di lato.
Specie in presenza di calamari, dobbiamo ammettere che questa retina rovesciata è un caso plateale di errore di progettazione. L’errore non era tale nel progetto originario: il primo occhio era un gruppo di cellule sensibili alla luce, collocato sotto la pelle di un nostro minuscolo antenato trasparente. Le fibre nervose vi giungevano dall’esterno, una soluzione buona come un’altra per una creatura trasparente. L’evoluzione ha edificato su queste basi, e centinaia di milioni di anni non hanno potuto far nulla per eliminare il difetto di partenza.

[CONTINUA: Questo post ha una seconda parte, in arrivo prossimamente, in cui si sciolgono i nodi sospesi. In particolare, si svela perché del buco non ci accorgiamo, che diamine c’entra l’arto fantasma, e come far passare i crampi a un braccio che non c’è più.]

DOVE NEL LIBRO: capitolo 2, Il sistema visivo.

ILLUSTRAZIONE: Un calamaro gigante (9 metri), catturato in Nuova Zelanda nel 2000 ed esposto al Museo Nazionale di Storia Naturale di Parigi. Se sembra di plastica, è perché è stato plastificato sostituendo i liquidi corporei con un polimero a indurimento.

Perché Bambi ha la pancia bianca

Non serve essere un pittore per sapere che la luce che colpisce un oggetto solido ne illumina alcune parti più di altre, e che luci ed ombre sono in grado di produrre un’impressione di tridimensionalità spettacolare. Per alcuni di noi, però, apparire spettacolarmente tridimensionali è una gran bella seccatura, altro che arte: i predatori hanno occhi di lince (o di lupo, o di pesce spada). I più debolucci fra noi si sforzano di nascondersi, abbigliandosi con colori e disegni simili a quelli dello sfondo e mantenendosi immobili quando butta male – ma le differenze di chiarezza create dalla luce che ci illumina tendono a svelare che non facciamo parte della tappezzeria. La vita non è facile se si è un cerbiatto o un’acciuga.
Una soluzione niente male è quella di diventare il più piatti possibile: o temporaneamente, rannicchiandosi nel momento del pericolo, o morfologicamente e una volta per tutte, come hanno fatto le falene e le sogliole. Una soluzione di compromesso, adottata indipendentemente (a riprova della sua genialità) da specie diverse, è quella di rimanere panciuti ma cancellare il gradiente di chiarezza generato dalla luce. Come, dite? Ma certo, pitturandoci su un contro-gradiente.
Avrete notato senz’altro che tantissimi animali hanno un colore più scuro nelle zone superiori del corpo (la testa e il dorso, ad esempio) e più chiaro nelle zone inferiori (come la gola e la pancia). Le creature che sfoggiano questa mise, dunque, sono più scure nelle parti che il sole schiarisce, e più chiare nelle parti che l’ombra scurisce. Un’uniforme intelligente che, annullando le differenze di chiarezza provocate dalla luce, tende a far apparire l’animale piatto e privo di corporeità. Non proprio il mantello che rende invisibili, ma un prototipo più che decoroso. In alcuni pesci semitrasparenti la contro-ombreggiatura può estendersi perfino agli organi interni. E sì, chiudiamo in bellezza: i bruchi che vivono a pancia in su (sulla pagina inferiore delle foglie, pancia alla luce, dorso in ombra) hanno scelto il modello per mancini, per minoranze insomma – con la pancia più scura della schiena.

DOVE NEL LIBRO: Capitolo 6, Come vediamo la profondità. Scoprirete anche se i polli ci cascano o no quando, allevandoli fin dalla nascita in gabbie truccate, si cerca di far loro credere che in natura la luce del sole proviene dal basso.

ILLUSTRAZIONE: Riuscite a individuare il padre di Bambi nell’immagine a sinistra? Qualcosa mi dice di no, per cui a destra vi mostro la stessa immagine capovolta. L’assunzione che la luce provenga dall’alto è così tenace che, non appena l’immagine in cui il cervo è visibile viene capovolta, i rilievi diventano incavature, la figura si trasforma in sfondo e il cervo scompare nel nulla. Illustrazione: © Walter Wick.

RIFERIMENTO: Il primo a ipotizzare che le pance bianche degli animali abbiano la funzione di renderli meno visibili fu Abbott Thayer, un eccentrico pittore americano che si diede poi da fare, con alterni successi, per dimostrare le applicazioni pratiche delle sue intuizioni. Fra le altre cose, Thayer brevettò un metodo per mimetizzare le navi da guerra tramite lo stesso tipo di colorazione – bianco per le aree in ombra, grigio-azzurro per quelle esposte al sole.

Sei diventata nera, nera, nera (e ti dico perché)

le gemelle hodgson, (c) Gary RobertsLe cose scure assorbono più luce di quelle chiare; guarda caso, d’estate preferiamo andarcene in giro con abiti chiari, che riflettono la luce invece che assorbirla. Più di qualcuno mi ha chiesto come mai allora l’abbronzatura ci protegga dagli effetti della luce solare. Sarebbe meglio diventare più chiari anziché più scuri, giusto?
Sbagliato. Per cominciare, quanto un vestito assorbe rispetto a quanto riflette è cruciale nel caso dei raggi infrarossi, perché i vestiti caldi ci scaldano. Ma i raggi ultravioletti sono un’altra bestia. Quello che importa è che non attraversino gli abiti fino a raggiungere la pelle; chi se ne infischia se non ci arrivano perché il tessuto li riflette o perché li assorbe. I tessuti scuri ci proteggono dai raggi ultravioletti il doppio di quelli chiari, e i tessuti pesanti più di quelli leggeri. Camicette in vetro, stile scarpine di Cenerentola, andrebbero ancor meglio: il vetro lascia passare la luce visibile ma blocca buona parte dell’ultravioletto, ed è per questo che in auto ci si scotta raramente, anche quando abbiamo il sole addosso per ore.
Proteggerci dall’ultravioletto va bene, ma l’abbronzatura fa di meglio: ci protegge solo quando serve. Il merito è delle specialissime proprietà della melanina, il pigmento scuro responsabile del colore della pelle, dei capelli e degli occhi. L’abbronzatura è in pratica uno strato di melanina, prodotto come reazione difensiva all’eccessiva esposizione alla luce ultravioletta, e fin qui d’accordo. Ma che armi tira fuori questa famosa melanina per proteggerci dall’invasione degli ultravioletti? Li assorbe e, prima che possano far danni ai piani di sotto, li trasforma in quantità innocue di calore; mangiandosi pure i malefici radicali liberi generati nel processo. Scusate se è poco.
Se abbronzarsi è una difesa dagli insulti del sole, perché mai porgiamo l’altra guancia, passando ore a non far niente sulle spiagge invece che a lavorare? Beh, perché la nostra abbronzatura segnala a chi incontriamo che abbiamo talmente tanto tempo da perdere che ci possiamo permettere di passarlo a non far niente sulle spiagge invece che a lavorare. Un secolo fa, la gente che aveva tempo da perdere si guardava bene dall’abbronzarsi, perché chi svolgeva i lavori più umili lo faceva sotto il sole. L’abbronzatura è diventata (o ridiventata) di moda quando i lavoratori hanno traslocato in massa dall’aperto delle campagne al chiuso delle fabbriche.

DOVE NEL LIBRO: Capitolo 1, La luce. Scoprirete anche come mai un po’ di sole fa bene, e (fra le righe) perché, in tutte le popolazioni, le donne tendono ad avere la pelle più chiara degli uomini.

ILLUSTRAZIONE: Queste due bambine sono gemelle. I genitori (con loro nella foto, vedi anche qui) hanno entrambi madre di pelle chiara e padre di pelle scura. Sono parecchi i casi di gemelli eterozigoti di colore diverso. La variazione nel colore della pelle delle popolazioni dipende dall’interazione di sei o sette geni diversi, ed è un adattamento legato alla necessità di regolare l’assorbimento delle radiazioni ultraviolette, la cui intensità varia con la latitudine. Per questa ragione, il colore della pelle non ha nessun valore nel determinare le relazioni di parentela fra i vari gruppi umani.

RIFERIMENTO: Un lavoro interessante e chiaro sull’evoluzione del colore della pelle (pdf): Jablonski, N.G. & Chaplin, G. (2000). The evolution of human skin coloration. Journal of Human Evolution, 39, 57-106.

“Il colore della luna” vince il Premio Pace per la divulgazione scientifica

Dedico questo premio a tutti coloro che hanno, o si impegnano per raggiungere, due qualità indispensabili in uno scienziato: onestà e coraggio intellettuale.

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Ecco la motivazione del premio:

Il vincitore della VI edizione del Premio Giovanni Maria Pace per il miglior libro italiano di divulgazione scientifica è “Il colore della luna. Come vediamo e perché” di Paola Bressan, Editori Laterza.

Per aver scritto un’opera che illustra in modo originale e approfondito la complessità del meccanismo della visione. “Il colore della luna” di Paola Bressan rappresenta un esempio brillante di divulgazione nel campo della percezione visiva, in grado di fornire un quadro molto aggiornato sui più recenti aspetti della ricerca nel settore.
Grazie a un ricco e originale apparato didascalico e di immagini, in gran parte realizzate dalla stessa autrice, e a uno stile di scrittura sempre semplice ed efficace, l’autrice riesce a condurre il lettore lungo un percorso interessante e curioso attraverso gli aspetti fondamentali della visione, partendo dalla descrizione della luce per arrivare sino alla definizione dei colori.
Tramite la presentazione di numerosi esempi legati tra loro da un lucido filo conduttore, l’autrice ha il merito di inquadrare i fenomeni percettivi in una prospettiva evoluzionistica, come il risultato di un adattamento funzionale, pur evitando il rischio di una semplificazione di carattere riduzionista.

I coni delle donne (colpo di scena)

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Come si diceva, fatta eccezione per i daltonici noi tutti abbiamo tre tipi di cono, sensibili al rosso, al verde e al blu – la famosa visione tricromatica. Ciascun tipo di cono ci rende capaci di distinguere circa 100 gradazioni di colore, ma siccome il cervello combina queste variazioni in modo esponenziale, alla resa dei conti ognuno di noi può vedere 1 milione di colori differenti. Niente male, dite? Aspettate, che non è finita.

Forse ricordate che i geni del pigmento “rosso” e del pigmento “verde” se ne stanno spalla a spalla sul cromosoma sessuale X, e che le donne hanno due copie di X, una ereditata dalla madre e una dal padre. A un certo punto dello sviluppo cellulare una delle X viene disattivata (le informazioni che porta sono tutti doppioni), ma la produzione dei pigmenti dei coni inizia prima. Quindi, per esempio, ogni donna fabbrica circa metà dei suoi coni “rossi” con la ricetta materna, e l’altra metà con la ricetta paterna. (Le daltoniche sono mosche bianche proprio perché, per fare una signora daltonica, sia mamma che papà devono essere portatori del gene difettoso, mentre per fare un signore daltonico la mamma basta e avanza.)
Ora, le ricette del pigmento “rosso” non sono tutte perfettamente identiche ma possono variare leggermente, un po’ come le ricette del sugo di pomodoro. E c’è di più. Quando producono copie di sé stessi per i posteri, i geni del pigmento “rosso” e “verde” a volte sbagliano e, essendo adiacenti, si scambiano un pezzettino. Ne risulta una ricetta per il “rosso” che ha dentro un ingrediente della ricetta per il “verde”. I coni che contengono questo pigmento saranno massimamente sensibili non più al rosso, ma a una frequenza intermedia fra rosso e verde, un arancio ad esempio.
I coni delle donne derivano sempre da due ricette distinte. Ne consegue che i coni di ciascuna donna saranno sì praticamente uguali fra loro o molto simili nella maggior parte dei casi, ma non in tutti. Per forza di cose alcune donne devono avere due tipi di cono rosso (o verde) talmente diversi da non poter più essere considerate tricromatiche (3 tipi di cono: rosso, verde, blu), ma tetracromatiche (4 tipi di cono: rosso, arancio, verde, blu). Naturalmente il cervello deve essere in grado di interpretare i segnali provenienti da questi quattro tipi di cono – e pare che lo sia.
Una persona dotata di super-visione tetracromatica è teoricamente in grado di distinguere non 1 milione, ma 100 milioni di colori diversi. Chi ha fatto i conti ha concluso che queste signore e signorine potrebbero essere il 2-3% della popolazione femminile mondiale, che niente niente significa 99 milioni di superdonne. Per il momento, ne sono state identificate una o due.
Care lettrici: fatevi sotto! cominciate col contare i diversi colori dell’arcobaleno… Sono solo 7 o 8 per noi normali tricromati, ma voi fantasmagoriche tetracromate dovreste vederne 10 o più.

DOVE NEL LIBRO: capitolo 3, Come vediamo i colori. Per gli addetti ai lavori, l’articolo che confronta le prestazioni visive di tricromati e tetracromate è qui.

ILLUSTRAZIONE: i cerchi concentrici centrali sembrano gialli su sfondo rosso e bianchicci su sfondo blu, giusto? In realtà sono identici. L’immagine è di Akiyoshi Kitaoka. Per sapere se siete daltonici fate il test. Per capire come vedono i daltonici se non lo siete, e per correggere immagini a colori se lo siete, planate qui.

I coni delle donne

i due quadratini con il punto sono identici

La visione a colori dei vertebrati dipende da speciali cellule a forma di cono che si trovano sulla retina. È cruciale quanti tipi diversi di cono ci sono, perché ogni tipo contiene un pigmento sensibile a una diversa porzione di lunghezze d’onda. Gli uccelli, le lucertole, le tartarughe e molti pesci hanno quattro tipi di cono (e un mondo visivo meravigliosamente variopinto), ma la maggioranza dei mammiferi, cani e gatti compresi, è equipaggiata con due tipi soltanto. A dire il vero gli antenati dei mammiferi ne possedevano l’intero set, ma i primi mammiferi persero due tipi di cono in una fase della loro evoluzione in cui (probabilmente per non incrociare i grossi dinosauri) erano diventati notturni, e vedere a colori non era più molto utile. I progenitori di un gruppo di scimmie del Vecchio Mondo (i quali hanno fatto da bisavoli pure a noi), però, a un certo punto riacquistarono un terzo cono grazie alla duplicazione e mutazione di uno degli altri due – o, più precisamente, di uno dei due geni che contenevano le istruzioni per produrre i relativi pigmenti. Gli individui con questa mutazione erano in grado di distinguere il rosso dal verde e, tra frutti rossi e foglie verdi, dovevano trovarsi sensibilmente avvantaggiati all’ora di pranzo. Ecco perché noi abbiamo la visione tricromatica, cioè tre tipi di cono (sensibili al rosso, al verde e al blu).
Punti deboli di questo escamotage: il gene del pigmento “rosso” e quello del pigmento “verde” se ne stanno l’uno accanto all’altro (dopotutto uno è nato dall’altro per un errore di copiatura) sul cromosoma sessuale X, mentre il gene del pigmento “blu” alberga per conto suo su un cromosoma dei soliti. Poniamo ora – cose che succedono – che uno dei due geni su X, ad esempio quello che contiene la ricetta per fabbricare il pigmento “rosso”, sia difettoso. Se questo capita in un maschio, la frittata è fatta: i maschi hanno un unico cromosoma X (ereditato dalla madre), per cui niente istruzioni su come si fa il pigmento “rosso”, niente “coni rossi”, impossibile distinguere il rosso dal verde. In una femmina invece le cose si aggiustano: il pigmento “rosso” entra in produzione comunque, dietro la guida del gene sano situato sull’altra copia del cromosoma X. (Le femmine hanno due copie di X, quindi potenzialmente una copia di backup di un mucchio di roba.) Ecco perché ci sono tanti daltonici e poche daltoniche.

[Questo post ha una seconda parte, con annesso colpo di scena, qui.]

DOVE NEL LIBRO: capitolo 3, Come vediamo i colori.

ILLUSTRAZIONE: I quadrati centrali dei due dischi (quelli con il puntino) appaiono verde l’uno e arancio l’altro, ma sono in realtà identici. Se siete lettori abituali del blog ormai ne sapete a sufficienza per credermi sulla parola, ma se così non fosse controllatelo di persona qui (dovrete spostare il mouse sull’area in alto a destra, sotto la scritta ‘mask’).

When the moon hits your eye like a big pizza pie

i due dischi sono identici

Perché la luna sembra più grande quando è all’orizzonte? Mah. Benché le discussioni sul tema durino da duemila anni, il vociare ancor non si è sopito. Oggi vi presento l’ipotesi grandezza/distanza: in maniera inconsapevole, calcoliamo la grandezza della luna sulla base della sua distanza apparente. A motivo della completa assenza di indizi di profondità, il cielo che ci sovrasta appare più vicino del cielo all’orizzonte. La luna all’orizzonte quindi sembra più lontana, e di conseguenza più grande.
Capito poco? Giustissimo, allora guardate la figura qui sopra. I due dischi bianchi sono identici, ma quello a sinistra sembra più grande. Secondo la teoria, sembra più grande perché sembra più lontano. Per semplici ragioni proiettive, l’immagine di un oggetto sulla nostra rètina (il fondo fotosensibile dell’occhio) rimpicciolisce man mano che l’oggetto si allontana. Se due oggetti proiettano immagini retiniche uguali ma sono a distanze diverse, quindi, il più lontano deve essere più grande dell’altro. Di fronte a questa figura, il nostro sistema visivo perviene alla conclusione sbagliata solo perché è sbagliata la premessa: i due dischi non si trovano a distanze diverse, sembrano a distanze diverse. Come la luna lassù e la luna laggiù.
Dimostrazione pratica in tre passi: (1) Fissare la luna piena per almeno mezzo minuto. Se la luna piena non è a disposizione, l’immagine illuminata a sufficienza di un disco o di una qualsiasi altra figura ne farà le veci benone. (2) Guardare una superficie vicina. Vedrete un’immagine consecutiva – ovvero, in questo caso, una debole replica scura della luna. (3) Guardare una superficie lontana. L’immagine consecutiva ora è molto più grande. Conclusione: il nostro sistema visivo “dilata” le immagini delle cose a seconda di quanto appaiono lontane. Ha! La dimostrazione svela gli altarini, perché l’immagine retinica è fissa e non si rimpicciolisce quando proiettiamo l’immagine consecutiva su una superficie più distante. Nella vita di tutti i giorni, però, questo meccanismo assicura che le cose continuino a sembrarci delle stesse dimensioni quando si avvicinano o si allontanano, e lo fa pure senza dare nell’occhio (avevate mai subodorato il problema?)
Quando la distanza alla quale l’oggetto si trova è percepita correttamente, la costanza di grandezza funziona d’incanto. Se gli indizi di distanza vengono via via eliminati, essa si indebolisce fino a sparire del tutto; in tal caso la grandezza dell’oggetto è determinata unicamente dall’angolo visivo che questo sottende sulla retina. E qui la luna fa capolino un’altra volta per offrirci un bellissimo esempio di fallimento della costanza di grandezza. Per coincidenza, luna e sole sottendono sulla nostra retina il medesimo angolo visivo (tanto è vero che durante un’eclissi di sole il disco della luna copre quasi perfettamente il disco del sole). La luna e il sole ci appaiono pure delle stesse dimensioni, ma ciò dovrebbe lasciarci di stucco: la luna è piccola e vicina, il sole è grande e lontano. Se luna e sole venissero percepiti in accordo con le leggi della costanza di grandezza, il sole apparirebbe quasi 400 volte più grande della luna. La ragione per cui ciò non avviene è che non abbiamo modo di giudicare le distanze relative dei due corpi. Più che naturale: non sono state le distanze celesti, ma quelle terrestri a guidare la nostra evoluzione.

DOVE NEL LIBRO: capitolo 6, Come vediamo la profondità.

ILLUSTRAZIONE: Una versione, con lune, dell’illusione grandezza/distanza. © Paola Bressan.
Il titolo di questo post è il primo verso (che fa al caso nostro per via della pregevole similitudine fra luna piena e grande pizza) della canzone “That’s amore”, portata al successo da Dean Martin negli anni Cinquanta. Il video qui.

Cuori contro cuori

Tutti i cuori (o, più esattamente, i pallini che li compongono) hanno in realtà lo stesso colore: sono di un bel verde smeraldo, molto simile a quello della scritta sottostante. Una deliziosa versione patchwork-natalizia (di Akiyoshi Kitaoka) della mia dungeon illusion. Nel primo riquadro in alto, i pallini verdi all’interno del cuore contrastano con i pallini rossi che li circondano, acquistando una componente azzurrina (l’azzurro turchese è il colore complementare al rosso). Nel riquadro accanto, i pallini verdi all’interno del cuore contrastano con i pallini viola che li circondano, acquistando una componente gialla (il giallo è il colore complementare al viola). Il risultato è che alcuni cuori appaiono di colore azzurro turchese ed altri di colore gialloverde. All’effetto finale contribuisce anche il fatto che elementi piccoli tendono a diventare più simili al proprio sfondo, per cui se l’immagine viene rimpicciolita l’illusione diventa ancora più forte. Controllate il colore degli sfondi, e se non capite come faccia lo sfondo rosso a rendere i pallini verdi più gialli, andate a leggervi pagina 60. Dopo di che guarderete la TV a colori con altri occhi…

DOVE NEL LIBRO: Potete trovare tante informazioni su queste e altre stupefacenti illusioni di colore, e sui vari modi in cui i colori influenzano il nostro comportamento, nel capitolo 3, Come vediamo i colori.

IMMAGINE: Carpet of blue and green hearts. Akiyoshi Kitaoka, 2007. Guardate altre immagini basate sulla stessa illusione sul sito di A. Kitaoka. Eventuali donne e uomini di poca fede: scaricate la versione originale del file, ad alta risoluzione (beh, non altissima, ma sufficiente in caso voleste procedere con uno zoom per confrontare tra loro i colori dei pallini). A proposito: nella scienza, avere poca fede è una virtù.

Saran belli gli occhi neri, saran belli gli occhi blu

heterochromic catIl colore base degli occhi di noi tutti, biondi e mori, è l’azzurro, e per la stessa ragione per cui sono azzurri il cielo e il mare. A causa della sua composizione, infatti, l’iride (la parte colorata dell’occhio) diffonde la luce che la colpisce, ovvero la rinvia in tutte le direzioni. Le lunghezze d’onda che vengono diffuse in misura maggiore sono le più corte, quelle che corrispondono alla percezione del blu. L’iride però contiene anche melanina, un pigmento che assorbe varie lunghezze d’onda. Quando la melanina è abbondante la maggior parte della luce viene assorbita, facendo apparire l’iride marrone scuro. Una quantità inferiore di melanina rende gli occhi nocciola o verdi, e una quantità ancor più esigua rende visibile il colore azzurro.
Un tempo si pensava che la quantità di melanina che si deposita nell’iride fosse controllata da un unico gene, con due possibili varianti (alleli): “marrone” e “azzurro”. Dato che ereditiamo un allele da mamma e uno da papà, ognuno di noi ne ha due, che possono essere uguali o diversi; quando sono diversi, l’allele “marrone” la fa da padrone sull’allele “azzurro”, producendosi in occhi marroni. Oggi sappiamo che non abbiamo solo un gene marrone/azzurro, ma anche un gene verde/azzurro. Il verde domina sull’azzurro, e il marrone domina sull’intera compagnia.
Quest’ordine di beccata è facile da spiegare. L’allele marrone dice all’occhio (passatemi l’espressione) di produrre tanta melanina. L’allele verde dice all’occhio di produrne un po’. L’allele azzurro sta sempre zitto. Ecco perché per avere occhi verdi occorre che l’allele marrone sia assente dal gruppo, e per avere occhi azzurri bisogna che manchino sia il marrone che il verde.
Per farvi un’idea di come funzionano le varie combinazioni, dilettatevi con questo calcolatore o quest’altro: dato il colore degli occhi dei genitori, il calcolatore vi restituisce la probabilità che i pupi abbiano occhi marroni, verdi o azzurri. Da non usare come test di paternità, perché i due geni marrone/azzurro e verde/azzurro sono sì le primedonne, ma i coprimari non mancano (tant’è che i nostri occhi sono anche grigi, nocciola, ambra, viola). Un gene può addirittura mutare per strada: per questo, anche se succede di rado, non è impossibile che il figlio di due genitori dagli occhi azzurri si ritrovi, miracolosamente, con occhi marroni.

DOVE NEL LIBRO: Perché si sono evoluti occhi di tanti colori differenti? In che senso l’iride è più affidabile del passaporto? Funziona l’iridologia? Tutto nel capitolo 2, Il sistema visivo.

ILLUSTRAZIONE: Se una delle due iridi contiene più melanina dell’altra, gli occhi avranno colore diverso. Questo problema (eterocromia) è relativamente frequente nei cani Husky e nei gatti, e ogni tanto fa capolino anche nella nostra specie. Non è il caso di David Bowie, i cui occhi appaiono di colore diverso per il danneggiamento (conseguente a un colpo ricevuto durante una zuffa) del nervo che controlla l’apertura di una delle due pupille — ora permanentemente dilatata.
L’immagine del gatto viene da qui.

The color purple

MacLeodRingsNon ci credete neanche questa volta? Ma sì, appunto: i due anelli, il piccolino rossiccio e il grande bluastro, hanno lo stesso colore. Ritagliati e incollati su uno sfondo bianco, sarebbero entrambi viola. Figure così dovrebbero metterle su Casa & Giardino a mo’ di avvertimento: Non Andate A Cercare Un Cuscino Dello Stesso Viola Del Vostro Divano Senza Portarvi Dietro Un Campione Di Tessuto! Il colore viola del divano dipende da tutti gli altri colori presenti nel soggiorno, e varia inoltre al variare dell’illuminazione. Col cavolo che è possibile ricordare il “vero” viola del divano: di quel “vero” viola non abbiamo alcuna esperienza.
In questa figura (e nel resto nel mondo, incluso il nostro soggiorno) ogni colore acquista percettivamente una componente complementare al colore adiacente. Il viola dell’anello piccolo vira verso il rosso perché sta su sfondo blu (questo blu ha come complementare il rosso); il viola dell’anello grande vira verso il blu perché sta su sfondo rosso (questo rosso ha come complementare il blu).
Qui l’effetto è rafforzato dalla presenza di un gradiente, cioè di una transizione graduale fra il blu e il rosso dello sfondo. Nel paradiso dei gradienti abbiamo già messo piede, ricordate? Come mai i gradienti potenzino gli effetti di contrasto ufficialmente non è noto, ma ufficiosamente possiamo presumere che sia perché, in natura, un gradiente segnala una differenza nell’illuminazione (le ombre hanno normalmente margini di questo tipo). Questi due anelli hanno fisicamente lo stesso colore. Beh, se fossero veramente illuminati da luci di tinta diversa (l’anello piccolo da un faretto blu e l’anello grande da una ciambella di luce rossa), l’anello piccolo rifletterebbe soprattutto luce blu, il grande soprattutto luce rossa. Al contrario, i due riflettono luce identicamente viola: il che induce il sistema visivo a ‘concludere’ che il cerchio piccolo sotto illuminazione blu è in realtà rosso, e il cerchio grande sotto illuminazione rossa è in realtà blu.
Capito? Rovinati da troppa intelligenza (visiva).

DOVE NEL LIBRO: capitolo 3, Come vediamo i colori. Questa è una dimostrazione del fenomeno del contrasto di colore.

ILLUSTRAZIONE: Don MacLeod, University of California, San Diego. Potete trovare l’originale, assieme a tante altre illusioni, in questo bel database di figure utili a chi si interessa di visione.

Passiamo ore davanti alla TV perché non si sa mai, non si sa mai, quello che al mondo ci può capitar

Perché leggiamo romanzi, andiamo al cinema, passiamo ore davanti alla TV quando potremmo fare qualcosa di più utile? Perché da che mondo è mondo la gente ama ascoltare storie?
Beh, le storie presentano una simulazione della vita reale che i nostri antenati potevano sperimentare senza abbandonare la sicurezza della caverna (e noi, della poltrona). Per non parlare poi di storie rappresentate in modo tale da raggirarci e sembrare pezzi di vita vera, come i film, gli sceneggiati TV, le soap operas, i reality shows. Se l’illusione funziona, la domanda “perché ci piace leggere o guardare la TV?” diventa ridicola. Quando siamo assorbiti in un libro o in un film, vediamo paesaggi meravigliosi e incrociamo tipi interessanti, ci innamoriamo di super-uomini e super-donne, proteggiamo eroicamente i nostri cari e dei cattivi facciamo polpette. Niente male per pochi euro.
Una storia è un po’ come un esperimento. L’autore o regista cala un personaggio in una situazione ipotetica, in un mondo diretto dalle stesse leggi che valgono nel nostro, e permette al lettore o spettatore di esplorarne le conseguenze. Il protagonista ha un obiettivo e si dà d’attorno per scavalcare gli ostacoli che gli si parano davanti; questi ostacoli, spesso, altro non sono che uomini e donne con obiettivi incompatibili. Noi stiamo a guardare e prendiamo mentalmente nota. Insomma, la vita è come una partita a scacchi, e le trame delle storie sono come le partite già giocate che i campioni di scacchi studiano in modo da trovarsi pronti ad ogni evenienza. I libri di partite sono utili perché il gioco degli scacchi è combinatorio: a ogni turno, le possibili sequenze di mosse e contromosse sono troppe perché uno le possa passare mentalmente in rassegna. Di qui, l’idea di mettere assieme un catalogo mentale di migliaia di partite — e delle mosse che hanno permesso ai buoni giocatori di spuntarla.
La vita ha ancora più mosse degli scacchi. Gli intrighi di persone in interazione fra loro (genitori e figli, fratelli, fidanzati, amanti, mogli e mariti, rivali, colleghi, amici veri e falsi, nemici, alleati, potenti, estranei) possono moltiplicarsi in così tanti modi che non c’è verso di riuscire a immaginare in anticipo le conseguenze di ogni possibile azione. Le storie (Shakespeare o Liala, “Il Dottor Stranamore” o “Via col Vento”, “Star Trek” o “L’Isola dei Famosi”, a ognuno il suo) rimpinguano il nostro personale “manuale della vita”: il catalogo mentale delle situazioni e dei dilemmi psicologici in cui una bella o brutta mattina ci potremmo trovare anche noi, delle strategie cui potremmo appigliarci e delle loro ripercussioni. (Che sia improbabile che ci troveremo mai in missione sull’Enterprise o a stomaco vuoto in Honduras, poco importa: la nostra sete di informazioni si è sviluppata molto tempo fa, quando i nostri orizzonti erano più ristretti.) Il cliché che la vita imita l’arte è vero perché, guarda un po’, la funzione di un certo tipo di arte è proprio quella di farsi imitare.

DOVE NEL LIBRO: di psicologia evoluzionistica e di film parliamo in più occasioni; di tecnica cinematografica si discute nel capitolo 7, Come vediamo il movimento.

ILLUSTRAZIONE: al celeberrimo regista Alfred Hitchcock le poste U.S.A. hanno dedicato un francobollo.

RIFERIMENTI: in questo post ho riassunto liberamente un argomento presentato da Steven Pinker in “How the Mind Works” (nel capitolo “The Meaning of Life”). Il titolo è ispirato a una famosa canzone di Cochi e Renato. Per i filosofi tra voi: Jerry Hobbs, “Will robots ever have literature?” (pdf). Per tutti, altamente consigliato: Steven Pinker, “Come funziona la mente”. Mondadori, 2000.

Colori caldi, colori freddi, colori tiepidi

Non vediamo i raggi infrarossi, ma li percepiamo sotto forma di calore. Una normale lampadina ad incandescenza comincia presto a scottare proprio perché emette più del 90% della sua energia nell’infrarosso, ovvero sotto forma di calore anziché nello spettro visibile – uno spreco considerevole. L’efficienza di una lampada al neon si avvicina al 30%; sempre poco in confronto all’efficienza di una comune lucciola, che sotto forma di luce visibile libera più del 75% della sua energia.
Ogni oggetto che abbia una temperatura emette radiazione infrarossa, anche un cubo di ghiaccio, ma oggetti più caldi ne emettono in misura maggiore. Su questo principio si basano le fotografie all’infrarosso: l’apparato rileva le differenze di temperatura nella scena e assegna un diverso (falso) colore a ciascuna temperatura, generando un’immagine che i nostri occhi possono interpretare. Alcuni rettili, come il serpente a sonagli, riescono a “vedere” la luce infrarossa direttamente e quindi ad individuare animali a sangue caldo anche al buio. La natura non ha ritenuto di doverci dotare di un apparato di rilevazione dell’infrarosso, ma in certe situazioni averne uno non sarebbe male. Nella scena madre dell’inseguimento notturno, nel bel film di Michael Crichton Il mondo dei robot, la visione a infrarossi di cui è equipaggiato l’androide inseguitore Yul Brynner gli conferisce per esempio un distinto vantaggio sullo sfortunato Richard Benjamin, unico oggetto caldo rimasto in circolazione. Benjamin tenta di far perdere le proprie tracce camminando nell’acqua, ma il calore irradiato dalle sue impronte sul fondo ne tradisce ogni passo: attraverso gli occhi dell’androide, vediamo le orme brillare nella semioscurità. Nel mondo reale, l’acqua corrente farebbe dissipare il calore all’istante e comunque ben prima che l’androide sopraggiunga, ma l’idea non è priva di merito. Le telecamere a infrarossi mostrano, ad esempio, che le orme lasciate da un orso polare nella neve continuano ad emanare calore per parecchi minuti dopo che l’orso se ne è andato.

DOVE NEL LIBRO: Capitolo 1, La luce. Scoprirete anche quali interessi condividano l’aviazione americana e il serpente a sonagli.

ILLUSTRAZIONE: Questa immagine all’infrarosso mostra come colori diversi assorbano quantità di calore diverse. I nomi dei colori sono stati scritti con dei pennarelli su un foglio di carta bianca [immagine in alto]. Il foglio è stato appoggiato sull’erba, alla luce del sole, e dopo un minuto è stata scattata la foto all’infrarosso [immagine in basso]. Le aree più chiare in questa immagine corrispondono ai colori più caldi (letteralmente!), cioè a quelli che hanno assorbito più calore dal sole. Notate che il colore nero è il più caldo di tutti, seguito nell’ordine da blu, verde, rosso, giallo e infine bianco (il colore della carta). La prova provata del perché gli abiti bianchi ci mantengano più freschi di quelli neri.
Le immagini vengono da questa bella galleria di foto all’infrarosso.

NOTA. Se siete arrivati qui cercando informazioni sui colori caldi e freddi, attenzione. I colori di questo post sono “caldi” o “freddi” in senso letterale: al sole, la carrozzeria di un’auto nera scotta di più di quella di un’auto bianca. Dal punto di vista della teoria del colore, invece, i colori caldi sono quelli che tendono al rosso e all’arancio (“caldi” per associazione con il sole e il fuoco) e i colori freddi sono quelli che tendono al blu e al violetto – all’estremità opposta dello spettro.

Contate le macchie scure e fatemi sapere

scintillating gridChe fastidio. A che cosa è dovuto il lampeggiare di macchie scure in questa figura? Negli anni Cinquanta, registrando l’attività delle cellule retiniche di un gatto, Stephen Kuffler rimase stupefatto nello scoprire che queste rispondevano meglio a macchie luminose piccole che a macchie luminose grandi. Kuffler ne dedusse, correttamente, che ogni cellula era non soltanto attivata dalla luce che cadeva su una certa zona della retina (il centro del suo campo recettivo), ma anche inibita dalla luce che cadeva nella regione immediatamente circostante (la periferia del suo campo recettivo).
Sui dischetti bianchi alle intersezioni di questa “griglia scintillante” vediamo comparire e scomparire delle macchioline nere. L’effetto (scoperto da J. R. Bergen nel 1993 e indipendentemente riscoperto l’anno dopo, in versione più avvincente, da Elke Lingelbach) è dovuto probabilmente ad una piccola sfasatura temporale fra le risposte del centro (attivazione) e della periferia (inibizione). Le risposte eccitatorie sono più rapide di quelle inibitorie. Di conseguenza, ogni volta che il nostro occhio si sposta sull’immagine, le cellule che segnalano “bianco” in corrispondenza delle intersezioni generano una risposta vigorosa, che viene ridotta bruscamente non appena arriva l’inibizione dalle cellule vicine. Questa riduzione della risposta viene percepita come un improvviso oscuramento del disco bianco, e crea una sensazione di sfarfallìo mentre muoviamo gli occhi.

DOVE NEL LIBRO: capitolo 4, Come vediamo i grigi. Nel libro troverete anche la versione classica, non scintillante ma pur sempre notevole, di questa illusione: la griglia di Hermann, descritta nel diciannovesimo secolo.

RIFERIMENTI: Schrauf, M., Lingelbach, B., Lingelbach, E., & Wist, E. R. (1995). The Hermann grid and the scintillation effect. Perception, 24, suppl., 88–89.
Schrauf, M., Lingelbach, B., & Wist, E. R. (1997). The scintillating grid illusion. Vision Research, 37, 1033–1038.

Perché ci sembra che a partire sia il nostro treno (mentre è quello sul binario accanto)

Kitaoka’s Rollers

Come trovare risposta a questa domanda? Guardando la luna, direi. La luna appare spesso muoversi fra le nuvole, ma sono le nuvole che si muovono, non la luna. La luna ci mette circa mezz’ora a spostarsi di una distanza pari al suo diametro, e per quanto la gamma di velocità a cui siamo sensibili sia incredibilmente estesa, 1000:1, tale spostamento è un po’ troppo lento perché lo si possa percepire. Beh, abbiamo l’impressione che a partire sia il nostro treno, anziché quello sul binario accanto, per la stessa ragione per cui abbiamo l’impressione che sia la luna a spostarsi, anziché le nuvole.
Questa illusione si chiama movimento indotto: un oggetto immobile sembra muoversi quando a muoversi è, in realtà, un oggetto vicino. Il resto del mondo non è visibile, per cui tutto ciò che sappiamo è che i due oggetti cambiano posizione l’uno rispetto all’altro. Nell’impossibilità di accertare quale dei due si stia davvero spostando, il sistema visivo ricorre all’applicazione automatica di una regola prefissata: dei due, l’oggetto fermo è quello più grande (o che circonda l’altro). Non è certo un caso che la regola sia questa, perché nel mondo le cose che si muovono tendono ad essere più piccole dell’ambiente che le circonda, e quest’ultimo è stabile e stazionario. Questa regola ci permette dunque di rappresentarci le cose in modo veridico; con qualche interessante eccezione. L’eccezione di maggiore importanza pratica è che l’oggetto del movimento indotto può essere il nostro stesso corpo – che è, in effetti, piccolo e circondato dal mondo. Se siamo fermi, ma l’ambiente visivo attorno a noi si muove per intero, avremo l’impressione di muoverci. Ecco perché, quando siamo seduti vicino al finestrino e il treno sul binario accanto comincia lentamente a spostarsi, ci sembra di essere noi a partire, mentre l’altro treno appare fermo.
Dirò di più: quando ci troviamo in un veicolo che si sposta a velocità uniforme, è solo grazie al movimento indotto che abbiamo la sensazione di muoverci. Dal punto di vista della stimolazione visiva, essere in un veicolo immobile circondato da una scena che si muove (come sul set di un film) ed essere in un veicolo in movimento circondato da una scena immobile (come nella vita reale) sono perfettamente indistinguibili. Le informazioni non visive provenienti dall’orecchio interno, che dovrebbero segnalarci che ci stiamo muovendo, vengono generate solo quando cambiamo direzione o velocità. Ne consegue che, all’interno di un’auto o di un treno che procedono a velocità uniforme, non abbiamo modo di sapere se è il mondo a muoversi o se siamo noi. Grazie al meccanismo del movimento indotto, assumiamo che l’ambiente in movimento che circonda il veicolo sia in realtà immobile, e attribuiamo il movimento a noi stessi, piccoli e dall’ambiente stesso circondati – non diversamente da come assumiamo che le nuvole siano ferme, e la luna, piccola e circondata dalle nuvole, si sposti rispetto ad esse.

DOVE NEL LIBRO: Come mai rimanere in equilibrio su un piede solo è tanto più difficile ad occhi chiusi (provare per credere)? E che c’entra questo con l’illusione del treno in partenza? Tutto nel capitolo 7, Come vediamo il movimento.

ILLUSTRAZIONE: “Rollers”, di Akiyoshi Kitaoka. L’immagine appare in movimento, ma naturalmente non c’è nulla che si muova davvero. Il movimento è un’illusione.

Farfalle, antilopi e compressione JPEG

purvesshimpilotto.jpgLe due facce di questo solido hanno lo stesso colore, sono dello stesso identico grigio. Lo so che preferite credere ai vostri occhi, e i vostri occhi vi dicono che non è vero. Beh, provate a coprire, con un dito, la zona che separa le due facce.
Questa è una versione tridimensionale e particolarmente efficace della vecchia illusione di Cornsweet. Quando due regioni identiche sono separate da un contorno speciale composto da due gradienti di luminanza adiacenti, la regione che confina con il gradiente scuro (qui, la faccia superiore del solido) appare uniformemente più scura della regione che confina con il gradiente chiaro (qui, la faccia inferiore del solido). L’uso di un doppio margine chiaro/scuro per aumentare il contrasto di regioni adiacenti si è evoluto nel regno animale (falene, serpenti, antilopi) per spezzare, a scopo mimetico, la continuità del corpo. Le antilopi insomma vanno in giro con l’illusione di Cornsweet in bella mostra, ad uso del leone.
L’illusione di Cornsweet svela come l’organizzazione centro/periferia delle cellule del nostro sistema visivo codifichi normalmente le informazioni. Prendiamo un quadrato grigio su sfondo nero. Codificare separatamente la luminanza di ogni singolo punto dell’immagine sarebbe dispendioso. Un metodo enormemente più efficiente è quello di definire le due luminanze, definire la posizione del margine del quadrato, e indicare quale luminanza sta dentro e quale fuori. Gli algoritmi di compressione dell’immagine che consentono di ridurre le dimensioni di documenti ingombranti, ad esempio JPEG, fanno esattamente questo.
La prossima volta che salvate un’immagine in formato JPEG pensate alla strabiliante varietà di sistemi visivi che, in tempo reale, stanno facendo qualcosa di molto simile.

DOVE NEL LIBRO: capitolo 4, Come vediamo i grigi.

Illustrazione: da D. Purves, A. Shimpi & R. Beau Lotto, An empirical explanation of the Cornsweet effect. The Journal of Neuroscience, 19, 1999, 8542-8551.

La luna bianca, la luna nera

lune bianche e lune nereNella figura a sinistra, vediamo lune nere seminascoste da una nuvolaglia chiara; in quella a destra, lune bianche seminascoste da una nuvolaglia scura. Eppure, le quattro lune nere sono identiche alle quattro lune bianche. In altre parole, i quattro dischi a sinistra sono fisicamente uguali a quelli a destra (come si può controllare confrontandoli attentamente). Questo effetto illustra bene la nostra incessante e inconsapevole attività di interpretazione del mondo visivo. In questo caso, l’esito percettivo è dovuto alla segmentazione automatica delle diverse parti di ogni disco in “luna” (vista attraverso le nuvole) e “nuvole” (parzialmente sovrapposte alla luna), e al fatto che interpretiamo come nuvole le aree del disco più simili allo sfondo. Qui il risultato è sorprendente, ma nella vita di tutti i giorni siamo impegnati in operazioni di questo genere di continuo, senza rendercene minimamente conto.

DOVE NEL LIBRO: Certamente non nel capitolo 4 (Come vediamo i grigi): benché l’articolo di Nature in cui la figura è stata presentata faccia esplicito riferimento alla percezione della chiarezza, questa non è un’illusione di chiarezza. Meglio vedere il capitolo 5, Come vediamo gli oggetti, e in particolare i principi di raggruppamento percettivo (qui, somiglianza e buona continuazione).

IMMAGINE: da Anderson, B.L., & Winawer, J. (2005). Image segmentation and lightness perception. Nature, 434, 79-83.

Il sorriso della Thatcher

maggie.jpgLa costanza di forma è piuttosto scarsa per oggetti non familiari, come agglomerati di plastilina, oppure per oggetti familiari in posizioni altamente inconsuete, come visi capovolti. Alcuni esperimenti mostrano che, nel riconoscimento di volti familiari, un livello medio di accuratezza del 95% crolla al 50-60% quando gli stessi volti vengono presentati a testa in giù. Ciò sembra essere dovuto al fatto che l’identità di un volto è codificata soprattutto dalle relazioni spaziali fra i suoi tratti (naso, bocca, occhi), e siamo poco sensibili a queste informazioni quando il volto è a testa in giù. L’illusione di Margaret Thatcher illustra alla perfezione questo punto. Il viso a destra nella foto appare ragionevolmente normale, anche se potreste avere la sensazione che vi sia qualcosa di strano. Se riuscite a capovolgere la figura (o la vostra testa mentre guardate la figura) ne capirete certamente il motivo.

DOVE NEL LIBRO: Capitolo 5, Come vediamo gli oggetti.
RIFERIMENTO: Thompson, P. (1980). Margaret Thatcher: A new illusion. Perception, 9(4), 483-484.

IMMAGINE: Peter Thompson, Department of Psychology, University of York.

L’anello che si muove ma non si muove

ouchiLa sorprendente proprietà di questa figura è che se essa viene fatta oscillare (sono sufficienti i micromovimenti oculari che facciamo inconsapevolmente anche quando cerchiamo di mantenere gli occhi immobili) l’anello si muove illusoriamente rispetto al disco che fa da sfondo. L’effetto è probabilmente legato al fatto che le regioni orizzontali e quelle verticali appaiono muoversi a velocità diverse. Per capirne il perché supponiamo che i centri di due rettangoli uguali, uno posto in orizzontale e l’altro in verticale, siano allineati verticalmente, e che i rettangoli si spostino da sinistra verso destra alla stessa velocità. L’estremità destra del rettangolo orizzontale arriverà a destinazione prima dell’estremità destra del rettangolo verticale, per cui il rettangolo orizzontale sembrerà più veloce. Nell’immagine qui raffigurata, lo sfasamento nelle velocità percepite fa sì che lo spostamento retinico di una soltanto delle due tessiture (non a caso, quella che fa da sfondo) possa essere perfettamente compensata; rispetto a questo sfondo, l’anello appare muoversi.

DOVE NEL LIBRO: Capitolo 7, Come vediamo il movimento.

IMMAGINE: Questa è una versione (di Nicola Bruno e Paola Bressan) di una famosa figura dell’artista giapponese Ouchi. La figura originale contiene due dischi sovrapposti, anziché un anello sovrapposto a un disco.

Grigi apparenti e grigi "veri"


Ricordate il post “Le cornacchie nere che appaiono bianche”, e la fotografia del mio soggiorno con i dischi grigi? Dicevamo che il più chiaro dei due dischi sotto la poltrona era identico al più scuro dei due dischi sul pavimento davanti alla portafinestra, e i due dischi grigi sotto la poltrona erano identici ai due dischi incollati allo specchio soprastante. Per chi non ha avuto voglia o modo di importare la figura in Photoshop e controllare con i propri occhi, ecco l’immagine originale (a sinistra) e una versione che è stata interamente scurita ad eccezione dei dischi (a destra). I sei dischi dell’immagine a destra sono perfettamente identici ai corrispondenti dischi dell’immagine a sinistra.

DOVE NEL LIBRO: Figura 4.3 (capitolo 4, Come vediamo i grigi).

Domande e risposte: guardare troppa TV aumenta l’insoddisfazione

DOMANDA. Cara dottoressa, non ho ancora avuto il piacere di leggere il suo libro, ma navigando nel suo blog mi è venuta una domanda da farle. Dato che l’essere umano riceve molte informazioni sensoriali dal mondo che lo circonda e ogni singola cosa viene ricostruita con una “grammatica” particolare nella propria mente, vorrei sapere quali conseguenze potrebbe avere il rimanere davanti alla televisione diverse ore al giorno.
RISPOSTA. E’ vero: una realtà costruita sulla base delle informazioni che provengono dalla televisione è necessariamente, e in molti sensi, diversa da una realtà costruita sulla base delle informazioni che provengono dal nostro ambiente naturale. Ad esempio, sappiamo che la nostra percezione di un volto dipende dai volti che abbiamo visto in precedenza, ovvero dal nostro stato di adattamento. Dopo aver guardato per mezzo secondo un volto maschile, una faccia androgina (che è una via di mezzo fra un uomo e una donna) sembrerà quella di una donna; la stessa faccia però sembrerà quella di un uomo se la osserviamo subito dopo aver guardato un volto femminile. Se compare dopo un volto molto bello, un volto normale apparirà più brutto del dovuto.
Passando molte ore davanti alla televisione siamo esposti a una distribuzione di facce e personalità ben diversa da quella in cui ci imbattiamo nella vita di tutti i giorni. Guardando in continuazione i protagonisti belli, ricchi, intelligenti, potenti, brillanti, di successo delle varie trasmissioni televisive (in alcune trasmissioni, soprattutto belli e di successo; in altre, soprattutto intelligenti e brillanti), siamo esposti a una società virtuale del tutto avulsa dalla nostra realtà. In confronto, ci possiamo sentire profondamente inadeguati, ed egualmente inadeguati appaiono le nostre mogli e i nostri mariti, i nostri parenti e i nostri amici.
Durante la nostra storia evolutiva, il meccanismo dell’invidia era probabilmente utile perché ci spronava a raggiungere quello che gli altri potevano ottenere. Nei piccoli gruppi in cui vivevamo, i modelli che facevano nascere sentimenti di invidia erano realistici, e gli obiettivi potenzialmente raggiungibili. Oggi, però, ben pochi di noi sono in grado di raggiungere i modelli che televisione, cinema e riviste patinate ci presentano ogni giorno, e questo fa sì che un meccanismo evolutivamente vantaggioso come quello dell’invidia si possa trasformare in una fonte non di crescita personale, ma di perenne insoddisfazione.

DOVE NEL LIBRO: Potete trovare molto di più sulla percezione delle facce nella sezione 5.5 (capitolo 5, Come vediamo gli oggetti).

IMMAGINE: Questi volti rappresentano prototipi maschili e femminili attraenti (a sinistra) e non attraenti (a destra), ottenuti fondendo assieme facce diverse. Nella vita di tutti i giorni incontriamo persone di ogni tipo, ma la distribuzione di facce a cui ci espone la televisione è assai meno simmetrica. È stato dimostrato che, dopo aver guardato una serie di volti di donne molto belle, gli uomini tendono a giudicare le loro compagne come meno attraenti (e a sentirsi meno coinvolti nella relazione) di quanto non facciano dopo aver guardato una serie di volti di donne normali. Per approfondire l’argomento e leggere il resoconto degli esperimenti che mostrano gli effetti dell’adattamento a volti femminili attraenti, vedi ad esempio Kenrick, D. T., Gutierres, S. E., & Goldberg, L. L. (1989). Influence of popular erotica on judgments of strangers and mates. Journal of Experimental Social Psychology, 25, 159–16, oppure Kenrick, D. T., & Gutierres, S. E. (1980). Contrast effects and judgments of physical attractiveness: When beauty becomes a social problem. Journal of Personality and Social Psychology, 38, 131-140.